Sailosi, 3 o 4 giorni prima di partire da Pangai, mi ha detto che i telefoni di Kotu e di Tofua funzionano, però ha aggiunto anche che, quando io sarò arrivato in quei luoghi, potrebbero essere nuovamente fuori uso. Non so per Tofua, ma sicuramente per Kotu qualcuno l’ha raccontata grossa: il telefono era fuori uso, esattamente come lo era già da un anno, quando ero stato li’ la prima volta in agosto, e la gente ha riferito che non è mai stato riparato. Comunque per Tofua spero bene, ci sono due villaggi: Manaka ad est e Hokula a nord, a Hokula dovrebbe esserci il telefono, ed anche una specie di ufficio del Tongan Visitors Bureau.
Dopo poco più di un’ora avvistiamo qualcosa all’orizzonte, chiedo ad Hatu cosa sia, dice che non lo sa, forse un peschereccio giapponese, ma dopo pochi minuti Hatu cambia rotta e punta dritto ad ovest, la prua sul presunto peschereccio. Con questa rotta imbarchiamo acqua ad ogni ondata, per cui debbo continuamente sgottare.
Il punto all’orizzonte non è più un punto, è diventato una barchetta come la nostra, alla deriva, sul sopraponte qualcuno in piedi agita una bandiera di fortuna, ci avviciniamo, Hatu non da segno di rallentare, passa rasente a fianco della barca in avaria e 8 ragazzi, forse 17 o 18 anni saltano sulla nostra barca, uno, un po’ più anziano è rimasto di la’ e dalla prua lancia una cima, non c’è nemmeno il tempo di dare di volta: uno dei ragazzi semplicemente punta i piedi sullo specchio di poppa e tiene la cima in mano, li stiamo rimorchiando. Sull’altra barca sono rimasti in due, quello a prua che controlla la cima di rimorchio, e l’altro, anziano e molto grasso, a poppa, smanetta sul fuoribordo aperto; lo riconosco, vive a Kotu, è il padre di Sela. Hatu cambia nuovamente rotta e punta su Kotu già fuori vista sotto l’orizzonte, ma so che la direzione è quella, riportiamo a casa quella gente, probabilmente noi ripartiremo più tardi, o forse domani. Hatu dice qualcosa, ed uno dei ragazzi va nel sottoponte e ritorna con un paio di noci di cocco da bere, 4 colpi di machete, poi due lunghe sorsate ciascuno e le noci vuote vanno a galleggiare in mare. Dall’altra barca chiedono qualcosa (credo da bere pure loro) ma Hatu dice di no, finite.
Distribuisco 4 sigarette, gli altri 4 si fanno avanti speranzosi, stavolta sono io a dire di no, spiego a gesti che si fumassero mezza sigaretta a testa. Chiedo ad Hatu che ci fanno in mezzo all’oceano, lui mi fa notare diverse taniche di benzina e dice che erano diretti alle Fiji (800 km ad ovest), suppongo emigranti clandestini. Dopo una decina di minuti si sente lo scoppiettio del fuoribordo dell’altra imbarcazione, la cima di rimorchio e lasca, quelli hanno accelerato e cominciano a superarci, il ragazzo che reggeva la cima salta in acqua e ci si aggrappa, nessuna delle 2 barche rallenta, ed anche gli altri saltano, uno riesce ad arrivare a bordo, gli altri in acqua, si aggrappano pure loro alla cima, ed uno alla volta si issano a bordo. Il padre di Sela ci da’ una voce, Hatu risponde “yop” e vira di bordo, siamo nuovamente in rotta per Tofua.
La deviazione fatta ci fa fare una rotta più stretta di prima, rispetto al mare, ogni tanto imbarchiamo acqua e devo sgottare, ma molto meno di prima. Tre ore di navigazione e siamo sottocosta a Tofua, Hatu rallenta e comincia a chiamare, io faccio un paio di fischi acuti, mi dice di continuare. Dopo 5 minuti ripartiamo costeggiando l’isola, un km dopo si riferma, lui ricomincia a chiamare e mi fa cenno di fischiare ancora. Altri 5 minuti, poi ripartiamo e torniamo indietro di 500/600 mt e stiamo li ad aspettare, e dopo una ventina di minuti arrivano in quattro, due da una direzione e due dall’altra, Hatu mi manda in prua e mi dice di stare pronto a gettare l’ancora, poi comincia la gimkana per aggirare gli scogli sommersi, puntiamo su una spiaggetta sabbiosa lunga forse 60/70 metri e larga 10, al suo comando butto l’ancora, lui ferma il motore e tre o quattro ondate ci derivano con la poppa verso terra, mezzo metro più in la’ ed avremmo sbattuto.
Uno dei quattro sale a bordo e passa agli altri i bagagli ed il sacco con i viveri, poi io e Hatu saltiamo, l’acqua è a mezza coscia, raggiungo la riva a guado mentre gli altri tengono la barca, quello rimasto a bordo salpa l’ancora e salta in acqua, nuota fino a riva. Proviamo ad issare la barca sulla spiaggia, ci sono 5 o 6 pezzi di tronco che fanno da rullo, ma non ci riusciamo, la barca è troppo pesante. Dopo 3 o 4 tentativi rinunciamo, In due risalgono sulla barca, accendono il motore e se ne vanno. I due rimasti sembrano accorgersi ora di me, Hatu dice qualcosa, i 2 si presentano, uno dei due Fotu, dice che mi ha gia visto da qualche parte, ma non ricorda dove, esclude Pangai, dico che è possibile, probabilmente su qualche isola, verso la fine di agosto, lui conferma, dice Nomuka. L’altro dice di chiamarsi Antony, ma tutti lo chiamano Daniela, cosi’ faccio pure io. Dopo una mezz’ora la barca ritorna, ora a bordo sono in 6, saltano tutti in acqua e si ricomincia ad issare la barca, stavolta siamo in 10, e anche se io, a dire il vero, faccio piuttosto poco, ci si riesce lo stesso :-). La barca viene issata e trascinata fin sotto agli alberi, poggia con la chiglia su 3 rulli, viene puntellata sui fianchi e legata con delle cime ai tronchi degli alberi vicini.
Poi è tutto finito, vedo che tutti hanno degli scarponi, Hatu che era scalzo ha tirato fuori pure lui degli scarponi e li indossa, cosi tiro fuori le scarpe di gomma (le più pesanti di cui dispongo li’) e me le allaccio. siamo sul lato est dell’isola, suppongo mi porteranno a Manaka e poi se ne andranno alle loro piantagioni.
Tofua è un vulcano, un anello roccioso col diametro esterno di circa 7 km e largo 2, all’interno del cratere quasi rotondo, un lago largo circa 3 km su cui spesso ammara un’idroplano che porta turisti, sempre all’interno del cratere ci sono 2 bocche attive, ma sono più di due secoli che si limitano a fumare. Spesso è chiamata l’Isola Balena, perché vista da Lifuka ha il profilo di un grosso capodoglio in superficie, ed il fumo del vulcano, quando visibile, assomiglia alla soffiata di quei cetacei, ed è nel punto giusto del profilo. L’anello montuoso sale fino a circa 450 mt di altezza, lassu’ c’è uno slargo quasi piatto, largo dai 10 ai 100 mt che corre tutto attorno al cratere, poi si ridiscende, in qualche posto anche a precipizio, fino al lago la cui superficie è circa 50 metri sopra il livello del mare. Dappertutto la costa è rocciosa e tormentata, grosse colate di lava, roccioni franati e possenti scogliere. Vicino a Hokula dovrebbe esserci un molo, in tutto il resto dell’isola ci sono non più di una decina di spiaggette, punti ove è possibile approdare, come abbiamo fatto noi qui.
Partiamo, i 4 arrivati per ultimi con la barca prendono a sinistra e spariscono dopo pochi passi, noi sei dall’altra parte, Fotu si e fatto carico della mia sacca, io porto lo zainetto col sacco a pelo, percorriamo la spiaggia sulla lunghezza e si comincia la scalata. Il primo pezzo è lo zoccolo roccioso, si sale quasi in verticale per 50/60 metri (di altezza :-(), ci sono dei punti in cui siamo fortunati e siamo facilitati dalle radici degli alberi che formano quasi una scala a pioli, nel resto del percorso io devo andare a 4 mani, loro camminano. Sono convinto che anche una capra di montagna, qui avrebbe qualche problema, forse non grosso (per lei), comunque ce l’avrebbe. In quei primi 60 metri ci fermiamo 2 volte per prendere fiato, io sono gia morto ma tiro avanti, poi finalmente siamo in cima (si fa per dire). Ora c’è un sentiero, passa in mezzo ad un tratto di jungla tropicale, comunque è sempre salita, ed è molto ripida. Sono l’ultimo della fila, gli altri, davanti a me, procedono con passo lento e cadenzato, lo stesso passo di montagna degli alpini.
Continuiamo ad avanzare ed a salire, dopo 200 mt la jungla si dirada, cominciano ad apparire le piantagioni, ma è tutta una serie di canaloni, cosicche, anche se si volesse girare attorno all’isola, anziche addentrarsi, ci si si dovrebbe comunque arrampicare, un canalone dopo l’altro. Il sentiero tira via in linea retta, non fa’ nessuna concessione alla conformazione del terreno, nessun tornante, nemmeno accennato, ci si arrampica all’insu’, all’ingiù, poi di nuovo in su. Saliamo ancora, ai fianchi del sentiero ex piantogioni di cocco, ora convertite in kava, la maggioranza dei cocchi sono stati abbattuti, restano piantati nel terreno gli spuntoni dei tronchi alti poco meno di un metro, il resto dei tronchi è lasciato li’ dov’è caduto, prima o poi marcirà e farà humus.
Raggiungiamo una tettoia in lamiera ondulata, raccoglie l’acqua piovana ed alimenta una raintank, 50 mt più oltre c’è una baracca di lamiera tutta arrugginita. Gli altri si fermano, posano i bagagli e bevono un po’ d’acqua dalla tank, cosi’ poso lo zainetto e mi disseto, poi mi siedo per un po’ di respiro. Dopo un po’ vedo che cominciano ad armeggiare con il sacco dei viveri, dividono lo zucchero, poi i 4 se ne vanno e restiamo solo io e Hatu, gli dico che pensavo dovessimo arrivare a Manaka, mi guarda un po’ strano, poi dice che siamo già a Manaka, ossia, che non ci siamo perché Manaka non esiste più, quello che mi vedo attorno è tutto ciò che resta di Manaka: la raintank con la tettoia per alimentarla e la baracca (che atro non è che la vecchia chiesa wesleyana), non c’è altro. Dice che lui, Daniela e Makasini dormono qui, sotto la tettoia, e qui dormirò pure io, finché vorrò stare con loro, dice che quando piove forte e tira vento vanno a dormire nella chiesa. Gli altri due (Fotu e Stivi) hanno delle capanne tongane vicino alle rispettive piantagioni. Le due piantagioni che vedo (una verso il basso e l’altra più in alto sono sue, dice che prima o poi disboscherà un altro tratto di jungla e se ne farà una terza, ed indica un crinale boscoso.
Chiedo di più e comincio a capire, a Tofua non c’è nulla, solo i pochi disperati che coltivano la kava. Non c’è acqua, ovunque si voglia andare bisogna arrampicarsi. Se ci si vuole lavare bisogna ridiscendere la montagna e fare il bagno in mare per poi risalire. Non ci sono animali da cortile, non ci sono donne o bambini, niente villaggi e nemmeno case (I 2 villaggi di Tofua sono solo 2 nomi segnati sulle mappe), c’è un solo abitante fisso dell’isola, un certo Pohiva, ha 82 anni e vive a Hokula (sempre che esista ancora un posto chiamato Hokula), li’ c’è solo una casa (la ex scuola GPS) con la raintank ed una capanna usata come deposito.
Poi a Tofua ci sono i kava planters, sono 27 (maybe), cosi’ mi ha detto Hatu, sparsi uno qui ed uno la’, vivono ciascuno per conto proprio, vicino alle rispettive piantagioni in capanne tongane, qui sono in 3 perché la tettoia è grande e c’è la tank con l’acqua, ma due di loro se ne vanno al mattino, scalano e raggiungono le piantagioni, poi sempre scalando, ritornano alla sera. Gli altri vengono qui, arrampicando la montagna per ore, per approvviggionarsi d’acqua una o due volte per settimana con taniche da 20 litri o secchi, e poi rifanno la strada in senso inverso. Ci sono in tutta Tofua 2 sole raintank: questa e quella di Hokula, a 3 ore di arrampicata da qui. Ognuno coltiva anche un po’ di taro (si sposa bene in coltura mista con la kava del primo anno), ma poco, giusto quanto basta per sopravvivere. Non vanno quasi mai a pescare (troppa energia e troppo tempo per arrivare al mare, pescare e risalire, rispetto ai benefici di un po’ di pesce). Lavorano dall’alba (5.30) al tramonto (19.30), con una sosta di un paio d’ore, a cavallo del mezzogiorno, perché è impossibile lavorare col sole a picco, qui siamo sotto i 20ø di latitudine, però in quelle 2 ore cucinano (solitamente nell’umu, perché non hanno acqua da sprecare) e mangiano l’unico pasto della giornata: un po’ di taro condito con latte di cocco. A volte, alla sera, arriva qui qualcuno a prendere acqua e si apprfitta dell’occasione per lessare un po’ di taro e mangiare in compagnia un secondo pasto giornaliero. Normalmente non bevono l’acqua della tank, ma quella delle noci di cocco. Dormono qui sotto la tettoia o nelle capanne coperte da foglie di cocco intrecciate: sul nudo terreno, livellato e spianato alla meglio, viene steso uno strato di foglie di cocco secche, sopra ci si stende lo stuoia che fa da letto, si dorme vestiti, a volte con una coperta. I vestiti vengono lavati in mare (quando c’è l’occasione di andarci), quasi mai dispongono di sapone, usano la sabbia, la tecnica è semplice: si salta in acqua vestiti, si nuota e si resta in ammollo per una mezz’ora, poi ci si strofina con la sabbia, sopra e sotto i vestiti, un’ultima sciacquata ed è finito, i vestiti si asciugheranno addosso.
L’unica cosa di cui hanno effettivamente buona cura sono le scarpe:
spesso, la sera, prima di andare a dormire, le scarpe vengono lavate, si asciugano di notte, ed al mattino comunque vengono pulite, cerate e spazzolate.
A Tofua cresce la kava: hanno provato a coltivarla nelle altre isole, ma cresce solo oltre i 150/200 mt di altezza, e quindi solo a Tofua ed a Vava’u, più in alto si va’, e meglio cresce, e la kava di Tofua, come qualita’, è la migliore. La kava è ricchezza: un cesto di taro, circa 20/25 kg, viene pagato 2,5$, uno di yam 3$, la manioca 2$ al cesto, la kava 18$ al chilo. E poco importa se la kava necessita di 4 o più anni per dare un raccolto, basta coltivare una maggior estensione di terreno, ed a Tofua mancano certo un sacco di cose, ma non il terreno da coltivare.
Ci sono diversi lavori da fare nella piantagione, quando si apre un nuovo tratto a coltura bisogna abbattere tutte le piante ad alto fusto con l’ascia, poi disboscare col machete. Si lascia tutto li’ per qualche tempo a seccare, poi si ammucchia e si brucia, tutto cio’ che e’ troppo pesante per poter essere spostato resterà li a marcire. Se ci sono dei cocchi, ne vengono lasciati alcuni, forniranno cibo e bevanda, gli altri vengono abbattuti. Poi si dissoda il terreno con l’huo, è un attrezzo con la lama di una zappa, ma il manico lungo, e innestato come nei badili. Poi si mette a dimora la kava, si usano dei pezzi di canna recuperati dalle piante pronte per il raccolto, vengono interrati di pochi centimetri. Assieme alla kava, che necessita dai 2 ai 4 anni per raggiungere le dimensioni adatte ad essere raccolta, si pianta anche il taro, mettendo a dimora le pianticelle figlie delle piante mature, delle quali c’è sempre abbondanza, si potranno raccogliere le prime foglie (vengono cotte e mangiate un po’ come gli spinaci) dopo un paio di mesi, i tuberi saranno pronti da raccogliere dopo 6 mesi. Non c’è un momento particolare per il raccolto: ogni giorno si raccogliera qualche chilo di tuberi e le foglie che servono per la giornata, finiranno nella pentola con un po’ di latte di cocco (o più spesso, sempre col latte di cocco, avvolte in foglie di banano e nell’umu, assieme ai tuberi).
Poi, per la piantagione, basta solo aspettare e sarchiare, per anni! lmeno ogni 15/20 giorni bisogna estirpare le erbacce, è un lavoro noioso ed interminabile, da fare con l’huo. L’erba cresce in continuazione, e bisogna sarchiare prima che butti i semi, viene estirpata e lasciata li’, fornirà un bricciolo d’ombra al terreno rovente, poi seccherà e marcirà concimando il terreno. Per sarchiare una piantagione (circa 6000 metri quadri) sono necessari dai 3 ai 4 giorni di lavoro. Dopo il primo anno, quando la kava comincia ad essere un po cresciuta, sarà la pianta stessa che con le foglie ombreggia il tereno, a contrastare leggermente la crescita delle erbacce, alleggerendo cosi’ il lavoro di sarchiatura.
Dopo un tempo variabile dai 2 i 4 anni (dipende dalla posizione e dalle condizioni climatiche), finalmente il tempo del raccolto: le piante vengono estirpate una ad una con l’huo, si recuperano anche le più piccole radicette, la pianta vera è propria serve solo per fornire talee da mettere nuovamente a dimora, il grosso viene ammucchiato, lasciato seccare e bruciato, le radici ripulite dalla terra, tagliate a pezzetti e lasciate essicare al sole. Questo è un lavoro pesante, ogni mattina la kava viene sparsa su un prato (rasato col machete) ben esposto al sole, ed ogni sera raccolta a mano e messa nei sacchi che verranno messi al coperto, nelle giornate in cui ci si aspetta pioggia la kava resta nei sacchi. Dopo essicata i sacchi verranno portati a spalla ove ci sia acqua dolce, e la kava lavata e stesa nuovamente ad asciugare per qualche giorno. Per terminare il processo di essicazione resterà esposta al sole, stesa vicino al mare su spiagge sassose per una decina di giorni, ma anche in questo tempo deve essere stesa al mattino e raccolta alla sera. Alcuni planters dispongono di grandi teli di plastica, per loro è più facile, alla sera stendono il telone su un traliccio che lo tiene rialzato di un mezzo metro per permettere il passaggio dell’aria, e lo fermano con delle grosse pietre, il mattino dopo si toglie il telone. Chi dispone dei teli, se in quel periodo non ha kava da essicare, li presta ad altri che ne abbisognano. Finalmente la kava essicata e messa nei sacchi, è pronta, verrà stoccata sotto dei teli di plastica, o in capanne tongane sulla spiaggia della barca ed alla prima occasione lascerà Tofua per Pangai o per Nukualofa, ove verrà macinata e la polvere impachettata e distribuita pronta per il consumo.
I kava planters vivono in quel modo per una o due settimane, poi se ne vanno alle loro isole per un altro paio di settimane, li’ coltiveranno le piantagioni tradizionali per dare cibo alle famiglie, e forse andranno a pescare, ma rispetto alla vita di Tofua è comunque una vacanza, poi, quando stimano che la piantagione di kava necessiti delle loro attenzioni ci ritornano.
Gli unici tipi di divertimenti, ascoltare la radio alla sera, tenere un fai kava il sabato sera (arrivano in 8 o 10, anche da km di distanza, e dopo il fai kava dormono li’, qualche volta si trattengono fino a dopo il pasto domenicale, ed una partita a carte la domenica pomeriggio. Unico altro cibo disponibile èun po’ di manioca, ma poca, e si’ che richiede meno cure del taro e cresce più in fretta. Girando l’isola ho visto in tutto 3 piante di banane (ma ce ne sono siuramente ltre), 1 bredfruit (senza frutti,) e, sulla spiaggia delle barche, tra gli alberi, una decina di papaie, non gli costerebbe nulla riprodurli, entrambi, anche in una certa quantita’: solo un colpo di machete e mettere a dimora le talee vicino alle capanne o alle piantagioni, ma non lo fa nessuno.
Quando parlano con me, e si parla di spostamenti non usano quasi mai il “to walk” o il “to go”, ma quasi esclusivamente il “to climb”, le distanze non sono in km ma tempo di arrampicata e possibilita’ di dissetarsi. Quando ho chiesto la strada per Hokula, Hatu ha usato queste parole: “You take there and climb up and down 30 minutes till Fotu’s house, niu (=noci di cocco da bere) in road, climb up road at right one hour till top, no niu, top flat but bush, no road, must know and bushknife, take right and cut bush 30 minutes, no niu, walk stones one hour, no niu, climb down road right one hour and Hokula, niu water and foods in Hokula”. (questo può anche dare un’idea del perché, a volte, ho problemi di linguaggio: Hatu è quello che parla inglese meglio di tutti), quando si parla di road si intende un sentiero, ma molto spesso il sentiero non è assolutamente distinguibile, sia che si tratti di bosco (la vegetazione ricresce in fretta) sia che si tratti di terreno nudo, se non c’è traffico (e di gente che gira, da quelle parti, non ce n’e’ poi molta) sei nelle canne. Fotu, nella jungla, mi ha fatto vedere come si fa a trovare e seguire il sentiero: si da’ un colpo di machete, non forte, dove si pensa dovrebbe o potrebbe esserci, se si trovano rami più grossi di un dito il sentiero non è li’, se il machete affonda facilmente sei sulla strada giusta, tagli e vai vanti di un passo.
Mosche, zanzare, insetti e topi, sono incontrastati signori e padroni dell’isola, l’uomo, lungo la catena alimentare, è soltanto loro tributario. All’interno del cratere, nella giungla verso sud ci sono parecchi maiali selvatici, ma sono molto pericolosi, oramai sono cinghiali e serve il fucile. Ho conosciuto uno, a Kotu, che di mestiere fa il cacciatore: una volta al mese vanno in 5 a Tofua, in 4 cacciano maiali selvatici per 2 giorni, i capi abbattuti vengono squartati sul posto ed i quarti portati a spalla sul costone del cratere, dove il quinto affumica la carne per una giornata (o una nottata), dormono poche ore per notte, mangiano solo le frattaglie arrostite dei capi abbattuti e bevono noci di cocco, (a volte, se incontrano dei kava platers scambiano volentieri frattaglie, o addirittura un quarto intero con del taro, ma non è mai un baratto, quando succede è sempre e comunque un dono, da parte di entrambi) man mano che la carne e’ pronta, l’affumicatore la porta a spalla giù alla barca, dopo i 2 giorni di caccia anche gli altri 4 posano i fucili e tutti e 5 fanno i portatori mentre finiscono di affumicarsi gli ultimi pezzi, poi in mare, pomeriggio e nottata con la barca sovraccarica, vanno diffilati a Nuku’alofa a vendere il risultato delle loro fatiche.
Fanno una vita d’inferno, generalmente per una decina d’anni, spesso venti, alcuni hanno moglie e figli da qualche parte. Hatu, ad esempio, e’ di Tongatapu, ha la moglie e 5 figli a Nuku’alofa, una figlia al St Joseph College a Pangai ed un figlio alle Fiji, all’Universita’ del Pacifico. La kava ha pagato la casa, la barca ed il fuoribordo, la scuola dei figli e tutto il resto, lui, quando non è a Tofua, generalmente sta’ a Kotu presso qualche relative, vede moglie e figli per Natale.
Altri sono scapoli e fanno questa vita per farsi una casa e poi cercare una moglie e costruire una vita decente, tipico esempio è Fotu, 28/30 anni, è di Fotuha’a, qui ha dieci piantagioni di kava (quasi tutte nei canaloni, in ottima posizione per la kava, ma lovorare sulle pendici dei canaloni non è che sia il non plus ultra) e 2 di ananassi (Fotu è un caso speciale, se da qualche parte nella piantagione ci sono diversi ananas, la piantagione è di Fotu, se ce ne sono pochi è di Daniela), gli ananas, però, sono un sovrappiù. Oltre a cio’, a Hokula ha 20 maiali tra grossi e piccoli, Pohiva ed un altro kava planter che dorme laggiù danno da mangiare ai suoi porci assieme ad una quindicina dei loro (noci di cocco, ovviamente), Fotu ci va ogni tanto, specie quando ha della kava da portare a Kotu, in tali occasioni tira su anche i maiali pronti da vendere, se è la stagione non disdegna di fare un carico di ananas (75 ents l’uno a Pangai), lui, però, con l’impegno di tutte queste attività è quasi sempre qui (e questo spiega un poco anche perché si concede i generi di lusso quali ananas e maiali, per lui non sono un lusso ma una neessita’), lascia Tofua praticamente solo per Natale, ho saputo che si sta’ preparando per chiedere Sela, a Kotu, ha i miei migliori auguri!
Stivi, è giovane, forse 22/25 anni, ha una sua capanna ma non ci dorme mai, dorme alternativamente da Fotu, qui o da Oto, non parla inglese, di lui so solo che non è sposato e che è un buon pescatore, ha 3 piantagioni.
Oto, poco più di 35 anni, ha una capanna ad una ventina di minuti (walk, niu), è qui da 7 anni, è handicappato al braccio sinistro, non so proprio come riesca a fare questo tipo di vita, ma lo fa’. Saranno lui e Stivi, ben 3 volte in questi 9 giorni, che molleranno il lavoro alla piantagione per andare al mare a pescare, e questo solo per offrire a me, oltre al taro, anche un po’ di pesce, certo, lo mangiano anche loro (e gli altri, se ci sono), ma se io non fossi stato qui non ci sarebbero andati, come non c’andavano prima che arrivassi e non c’andranno più quando me ne sarò andato. Oto ha 4 piantagioni, ne sta preparando altre 2, Stivi sta’ abbattendo gli alberi, con l’ascia, per lui, il resto lo farà da solo. anche lui lascia poche volte Tofua, non è sposato, non so da quale isola provenga.
Daniela e Makesini, il primo sui 30, moglie ed una figlia a Kotu, tutto il resto della famiglia a Tongatapu, l’altro sui 25, non parla inglese, di lui so solo che non ha moglie ed è di Fotuha’a. Il loro e’ un caso particolare: dormono quasi sempre qui, con Hatu, ma hanno una capanna molto ben organizzata ad un’ora (climb up, no niu) da qui, vicino alle loro piantagioni, in alto sulla montagna, ove vivono assieme quando non sono qui. Hanno 6 piantagioni ciascuno, vicine tra loro, essendo in alto hanno una buona produzione, i due lavorano sempre assieme quasi in societa, però ciascuno gode i frutti del proprio raccolto. Quasi tutte le mattine scalano la montagna per ridiscenderla alla sera. Daniela ha il ginocchio destro sifulo, l’osso del polpaccio balla libero nel ginocchio, però non zoppica, e scala tranquillamente la montagna dalla piantagione fino al mare con 2 sacchi di kava in spalla, compreso quel tratto spaventoso dei primi 60 metri.
Poi c’è il figlio di Sione Fine, ha un nome astruso che non sono mai riuscito a pronunciare, per cui l’ho sempre chiamato Fine, come suo padre, ha quasi 18 anni, è a Tofua da 7 mesi, ha una piantagione e sta’ ultimando la seconda, non è ancora temprato come gli altri.
Degli altri, una ventina in tutto, ho conosciuto soltanto Simi (lo troverò qui dopo la spedizione a Hokula e nel cratere), ed uno di Kotu, non so il nome, che dorme nella ex GPS di Hokula, con Pohiva.
Hatu, già quel pomeriggio è nella piantagione a sarchiare, ci sono un sacco di batterie esaurite li in mezzo, cosi’ gli spiego che col tempo lasciano veleni nel terreno, mi ringrazia dell’informazione, non lo sapeva, poi, man mano che le trova le tira su e le butta in un angolo incolto, a valle, non so se continuerà a farlo anche domani o dopo. Più tardi cala il sole e Hatu interrompe il lavoro, arrostice 4 bredfruits direttamente sul fuoco e nel frattempo prepara un po’ di latte di cocco e ci sbricciola dentro del peperoncino selvatico, poi arrivano Daniela e Makesini, Hatu gli dice qualcosa e Daniela tira fuori dalla sacca di Hatu una lampada a petrolio nuova) ed una bottiglia di kerosene, ora, a Manaka c’è anche la luce. Mangiamo i bredfruits, uno a testa, intingendo la pasta nel latte speziato, ha un gusto ottimo. è tutta la nostra cena.
Poi parliamo un poco, mi chiedono che cosa ci stia andato fare li’ (comincio chieremelo pure io :-(), cosi’ spiego che sono li’ per conoscere la gente e vedere come vivono, aggiungo anche che ho qualcosa da fare e che un giorno DOVRÒ andare oltre il crinale, nel cratere. Daniela mi dice che domattina (o un’altra mattina qualsiasi) posso andare con loro su per la montagna, fino alla loro casa, e poi vedere le loro piantagioni. Comunque, per il cratere ed il lago il loro consiglio è unanime: meglio se chiedo a Fotu di accompagnarmi. Poi è ora di andare a dormire (saranno forse le 8 e mezza), loro stendono le stuoie e le coperte, io il sacco a pelo. La nottata è terribile, le zanzare banchettano, e dentro al sacco a pelo le formiche non sono da meno, sono lietissimo di alzarmi alle 5.45 (il sole sorgerà pochi minuti dopo le 6, giusto in faccia a noi), Daniela e Makesini sono già partiti, Hatu sta’ sarchiando e lo raggiungo, mi dice che ha messo da parte la mia colazione e me la porge: 2 uto (noci di cocco germogliate) si mangia la sfera rotonda, dolcisima e spugnosa che ha preso il posto della pasta e dell’acqua. Poi gli dico che andrò ad esplorare, in su’, lui dice che interromperà il lavoro verso le 11 e farà qualcosa da mangiare e di tornare per quell’ora.
Alle 7 comincio risalire il crinale, dopo le piantagioni c’è una sottile fascia di jungla, poi la salita si fa ripidissima, devo riprendere fiato ogni 20 passi, ma vado in su. Verso le 9 raggiungo una capanna abbandonata, c’è un fusto di plastica da 100 lt con una lamiera per convogliarci l’acqua, è pieno a meta’, sembra pulita e bevo un poco, è anche calda. 100 mt dopo la capanna il sentiero sparisce nel nulla, non so più da che parte andare, mancheranno forse 70 mt al crinale, cosi’ cerco il sentiero ma invano, poi decido di tornare. Alle 10.30 arrivo alla tettoia, non c’è nessuno in giro, cosi’ mi stendo sotto un albero (in pendenza, ovviamente). Dopo un po’ arriva Hatu, era andato a cercarmi :-). Andiamo da Oto, li’non c’è nessuno, ma c’è la pentola sul fuoco, cosi’ dopo una decina di minuti si mangia: taro bollito ed un paio di pannocchie lessate da sgranocchiare. Poco dopo rientrano Oto e Stivi, hanno dei pesci, cosi’ si rimette la pentola sul fuoco con quelli e dell’altro taro, poi mangiamo pure quelli. Il pomeriggio fancazzando li attorno, c’è un mango ma i frutti sono troppo indietro, trovo un’albero di arance selvatiche con dei frutti maturi, ne mangio uno, e molto succoso ma amaro, ne prendo altri 2, Hatu dirà che vanno bene solo per dare un po’ di gusto all’acqua.
Arrivano Daniela e Makesini, hanno un mezzo casco di banane gialle ed un sacco di taro per cena, mangiamo quello, nel frattempo è rrivato Fotu e mangia con noi. anche le zanzare mangiano con noi, ho messo un po’ di outan ma è come acqua fresca, con una manata a aso ne schiacci 3 o 4. La schiena comincia a fare le bizze, ma non posso farci nulla, solo stare attento ai movimenti bruschi.
Più tardi, sdraiati sopra la cisterna (sul emento i sono meno zanzare), parlo con Fotu, gli dico che prima o poi dovrò andare nel cratere, lui annuisce, dice che si ricorda di avermi visto a Nomuka, ad un fai kava al club, ero col Magistrato e Sailosi, dice che ha detto agli altri di avermi già conosciuto, ma non ha detto nulla circa le irostanze e quei miei compagni di viaggio, mi chiede se può parlarne e se sto’ lavorando per loro, rispondo che per ora, finché non conosco la gente, e meglio che non ne parli, all’altra domanda non rispondo. Parliamo di lui, dice che sta’ quasi sempre qui, va’ di rado Fotuha’a, e qualche volta a Kotu, ma solo per uno o due giorni, ha due barche, una più grossa, l’altra (molto funny, dice lui) e quella con cui siamo arrivati io e Hatu. Domani sera (sabato) qui ci sarà un fai kava, verranno tutti quelli che stanno da questo lato dell’isola, domenica non si farà nulla. Lunedì partiamo, mi porterà sul crinale, mi indichera sia la strada per scendere, sia i percorsi della gente dell’idroplano, dall’alto, dice, sono chiarissimi, poi scenderemo a Hokula, lui avrà da fare li’ per 3 o 4 giorni, cosi’ potrò approfittarne per andare nel cratere, quando torneremo Hatu dovrebbe aver finito di sarchiare e Daniela e Makesini di insaccare la kava pronta, cosi’, molto probabilmente, il prossimo sabato rientreremo tutti a Kotu, verrà pure lui perché ha un carico di kava pronto da consegnare, va a Hokula a preparare i maiali ed un paio di altre cose.
Nel frattempo sono arrivati anche Oto e Stivi, ma stanno poco, Fotu dormirà qui, Stivi da Oto, tiriamo tardi (le 9.30) per festeggiare la lampada a petrolio, poi tutti a nanna. In nottata, oltre a fornire cibo alle zanzare, un topo mi ha morso il collo, gli ha dato una manata mentre scappava e l’ho schiacciato, il morso fa un po’ male ma mi rimetto a dormire.
Sveglia alle 5.45, una sciacquata agli occhi ed una banana, parto con Daniela e Makesini che il sole deve ancora sorgere, andiamo do Fotu, lui è già partito prima. Lungo la strada vedo alcune delle piantagioni di Fotu, approfittiamo tutti e 3 del suo marchio di fabbrica per un’ananas a testa, da Fotu Daniela si fa’ dare un telone di plastica, Fotu mi da un’altro ananas, poi noi 3 scendiamo al mare, ma per un’altra strada, Makesini ha in spalla 2 sacchi di kava, Daniela 1 più il telone. Questa strada sembra meglio, se non ci fosse un passaggio di una quindicina di metri a ridosso di una parete verticale di roccia, la cengia su cui poggiamo i piedi, quando è larga e di 15 cm, in altri posti non esiste proprio, lo strapiombo sotto è di almeno 30 metri. Decido che questa strada non fa per me, la prossima volta meglio allungare il percorso di 20 minuti che rifarla. Al mare, su una spiaggia sassosa viene stesa al sole la kava, si tratta di un carico già lavato, dovrebbe partire sabato con noi, poi ne approfittiamo e tutti in acqua a lavarci, dopo risaliamo alla tettoia. Per pranzo Makesini ha preparato una specie di gnocchi dolci: farina di grano, zucchero e latte di cocco, poi bolliti e conditi con altro latte e cocco fresco grattuggiato, buonissimi.
Alla sera arriva un po di gente, tutti quelli che già conosco, più altri 6 o 7, qualcuno ha già mangiato, altri no, qui, per cena, hanno messo su due grosse pentole di taro, e ne è avanzato parecchio, chi vuole va a servirsi. Fotu ha portato la kava, Stivi la pesta con le pietre, poi iniziamo, come boule usiamo un galleggiante di plastica sferico, di quelli delle reti da pesca oceaniche di circa 60 cm di diametro, tagliato a meta’, viene usato anche come catino, a volte come deposito di cibo, ma ora funge egregiamente come boule. La kava e’ forte, in parte perché forse ancora non ben essicata, in parte perché frantumata a mano sulle pietre, ed in parte perché non sono mica stati tanto a misurarla, ne hanno fatti 2 secchi da 20 litri, siamo in 15 o 16, io tiro mezzanotte, ma alcuni hanno mollato prima, semplicemente si sono stesi e si sono messi a dormire, io faccio la stessa cosa, altri continuano a bere.
Domenica, sveglia, grande concessione, alle 6.40, in giro non c’è nessuno, mi hanno svegliato le mosche. Più tardi Make mette su una pentola di taro (l’acqua della tank, in questi giorni ha avuto un bel salasso), alle 9 mangiamo, comincio ad odiare il taro, inoltre ho finito le sigarette, ma ho un pacco e mezzo di tabacco e la pipa, e se dovesse servire, c’è il tabacco strano che Hatu ha avuto dalla capitana di Matuku. Le domeniche sono già noiose a Pangai, qui è mortale, piuttosto che niente, il pomeriggio ascolto la messa alla radio (Daniela è cattolico), ma poi mi scazzo pure di quella.
Lunedì, alle 6.45 sono pronto, bagaglio leggero nello zainetto (sacco a pelo, un cambio di biancheria, 1 sapone, spazzolino e dentifricio ed 1 sciugamano piccolo, trattenuta all’esterno, con le cinghiette, la giacca della cerata che di notte mi fa da cuscino, alle 7, ora dell’appuntamento, sono sulla spiaggia della kava, Fotu arriva quasi puntuale, stende un paio di sacchi di kava ad essicare e partiamo. Prima sosta alle 8.30 a casa sua, mangio un ananas (e’ la mia colazione stamattina, c’era del taro avanzato da ieri sera ma non ne ho proprio voluto), lui prepara i bagagli in pochi minuti, riempie d’acqua una tanica di plastica da 10 lt che sa’ di benzina e ripartiamo, più tardi facciamo un’altra sosta presso una sua piantagione di ananas, cosi’ ne mangio un’altro, lui ne tira su 5 o 6 da portare a Hokula, subito dopo la piantagione comincia il tratto più ripido, è una tortura, ogni 10 o 15 passi ci fermiamo a tirare il fiato (e non solo io, anche lui ne sente il bisogno, ma lui è carico, oltre al bagaglio ha l’acqua, in un sacco 4 noci di cocco, gli ananas e qualcos’altro), inoltre i 2 machete, quello grosso e pesante ed uno più leggero. Quando arriviamo in cima siamo in piena jungla equatoriale, due minuti di sosta, poi mi da’ il machete leggero e comincia a tagliare ed avanzare, conosce la strada, quindi andiamo abbastanza veloci, tutto considerato, lui davanti taglia il grosso, io un paio di metri dietro rifinisco ed allargo il passaggio, ne siamo fuori dopo una mezz’ora.
In una radura, li in mezzo alla jungla, sul top del crinale, qualcuno ha abbattuto un grosso mango e dal tronco ne ha ricavato una popao, tutto attorno le schegge di legno rimaste dal lavoro di scavo, non ho idea di chi, recentemente (le schegge sono secche, ma non marce), possa aver fatto una cosa simile lassu’, ci sono manghi un po dappertutto fuori dal cratere, e chi è capace di costruire una popao non ha niente da fare sul lago interno, anhe Fotu non ne sa nulla.
Il cammino prosegue sulle pietre bruciate, attorno, qui e la’ qualche bocca di cratere chiusa, alcune di una decina di metri, altre più grandi, non c’è sentiero, o si conosce la strada, oppure si rischia di trovarsi un qualche cratere davanti e di dover tornare indietro per aggirarlo, lui sa dove andare ed io lo seguo, il nostro passaggio non lascia alcun segno. i fermiamo per qualhe minuto su un punto leggwrmente più alto, la vista è splendida. d un km ‘e’ Kao, senza il solito cappuccio di nubi, l’aria è tersa, pulita, si vedono tutte le Ha’apai, sono tante, saranno più di 300 tra grandi e piccole. Fotu mi indica la linea dei vulcani, sono tutti in riga. Dopo un km siamo fuori dalla zona rocciosa, c’è un po’ di vegetazione e riprende il sentiero. Qui crescono un sacco di felci, ma sono secche e dure, molto dure, ho le gambe tutte graffiate. Mi porta su una specie di belvedere, si vede il lago, ma non è la solita vista che si vede più o meno in tutte le foto e cartoline, siamo molto più ad est, qui non sono mai venuti ne turisti ne fotografi, scatto una foto, lui mi indica dove ammara di solito l’idro, dove prende terra la gente ed i sentieri che percorrono, sono solo due e si distinguono nettamente, poi mi indica, più avanti, sul costone, il sentiero di discesa. che dovrò fare. Ripartiamo di buon passo, dopo quasi un’ora mi fa vedere sulla sinistra l’imbocco del sentiero di discesa, poi torniamo indietro di un centinaio di metri e cominciamo a scendere verso il mare, verso Hokula, quasi subito i resti di un bivacco: pietre in circolo e scatolette arrugginite abbandonate lassu’ come in un immondezzaio, è il primo segno che vedo in Tofua della cosidetta gente “civile”. Da quassu’ si vedono nettamente 3 tetti in lamiera, quindi Hokula esiste ancora, almeno in parte. La discesa è ripida quanto lo è stata la salita, ci fermiamo a mezza strada presso un albero mezzo secco, è il punto di riposo, sia per salire che per scendere. Beviamo un po’ d’acqua, poi lui lascia li’, all’ombra, la tanica dell’acqua ed il machete piccolo: serviranno a me quando andrò al lago, l’acqua resterà li’ di scorta, prenderò il machete salendo, per lasciarvelo al ritorno, recupereremo tutto quando torneremo Manaka.
Ultimo tratto di discesa, difficile, non molto ripida, ma c’è un sacco di vegetazione dura e bassa, spesso spinosa, che graffia e scortica le gambe, Fotu sembra non accorgersene, finalmente cominciano i cocchi delle vecchie piantagioni, il sottobosco si dirada ed arriviamo in paese: una casa in legno (la vecchia GPS), una rain tank grande, in blocchi di cemento, sembra una casa, serviva per tutto il villaggio quando c’erano una ventina di abitazioni), ora non è più in uso, una tank cilindrica interrata a meta’, una capanna tongana grande, Fotu dice che è usata come magazzino per la kava. L’altro tetto, visto dall’alto, è solo una tettoia abbandonata in mezzo a quello che ora è solo bosco selvatico. In giro non c’è nessuno, ma in mezzo allo spiazzo c’è un grosso mango, e sotto, all’ombra, piantato nel terreno, un tavolo con le due panche fissate alle gambe. Visito subito la tank, è quasi piena e l’acqua èfresca, una sciacquata ed una bevuta, poi raccolgo un paio di manghi, non sono maturi ma si possono mangiare, mi approprio di una delle panche: è orizzontale, diritta, senza gobbe, pietre o buche, è all’ombra e tira una leggera brezza, uso lo zaino come cuscino, e mi metto a dormire, e’ quasi l’una, ci abbiamo impiegato quasi 5 ore.
Mi sveglio dopo 3 ore, sull’altra panca c’è un uomo anziano, dimostra 60/65 anni, dovrebbe essere Pohiva (ma lui, mi hanno detto che ne ha 82), non dice una parola, mi offre quattro o cinque manghi maturi, ne mangio un paio, ottimi, poi dico “fiu aupito, malo’” (=ho finito benissimo, grazie), lui sorride e si presenta, è Pohiva, parla un inglese molto simile al mio tongano, ha la moglie ed una figlia (di 57 anni) a Nuku’alofa, è abituato a vedere qui qualche palangi, ma sono il primo che vede arrivare dalla montagna con un planter, gli altri arrivano tutti dal mare con quelli che portano in giro i turisti. Stavolta tocca a me sorridere, poi mi presento, dico che non ho famiglia e che non sono un turista, con questo abbiamo esaurito tutto il vocabolario che abbiamo in comune.
Dopo una mezz’ora arriva Fotu con un’altro (e’ il planter che dorme qui), sono andati a pescare ed hanno una ventina di pesci, alcuni grossini, oltre il kg, comunque tutti ottimi. Pohiva comincia a pulire il pesce, i due hanno anche un paio di sacchi di cocchi e cominciano a dare il cibo ai maiali: 2 colpi di machete e 4 o 5 colpetti di punta, ed eccole li’ le strisciette di coccobello coccofresco da 3000 lire l’una sulle nostre spiaggie: qui è cibo per i porci.
Poi mettono su’ la cena, a me viene un pesce grosso ed uno più piccolino (purtroppo bolliti, quello grosso tagliato a meta’), e l’immancabile taro. Dopo cena tiro fuori la pipa, do’ un po di tabacco a Pohiva (gli altri non fumano), non ha cartine ed usa pezzi di foglie giovani di taro asciugate ed essicate sul fuoco. Più tardi mi lavo, le gambe sono tutte graffiate. Ci mettiamo a parlare un poco, dentro alla scuola, la porta è aperta, e subito fuori un catino con delle bucce di noci di cocco non ncora secche a bruciare, fanno molto fumo, ed il fumo entra dalla porta e ristagna, ma è quello che si vuole: tiene lontane mosche e zanzare, resterà li’ a fumare tutta la notte, e cosi’ pure tutte le sere e notti finché starò li’. Verso le 8 ci prepariamo per la notte, anche Fotu usa un sacco a pelo, di quelli verde militare, a mummia, col cappuccio.
Qualche zanzara nonostante il fumo, però rispetto alla tettoia è un sogno. Verso mezzanotte comincia a piovere, pioverà forte tutta la notte per terminare a mezza matinata, in giro c’è solo fango, i maiali ci sguazzano. Colazione con pesce e taro avanzati la sera prima, più un ananas, del cocco grattuggiato e dei manghi. Oggi è impossibile arrivare al lago, meglio cosi’, un giorno di riposo non mi farà certamente male. Il pomeriggio vado in giro per l’ex villaggio, si capisce che li’ c’era un insediamento umano perché ogni tanto si vedono delle piante in fila: dove c’era una siepe, file di fiori e cosi’ via, ci sono moltissime piante di agrumi selvatici (probabilmente ogni famiglia aveva una o due piante fuori della porta della cucina per fare il “caffe’ tongano” con le foglie, parecchie papaie, alberi con qualcosa che assomiglia a delle pere, sia come forma che come gusto, anche se sicuramente non sono pere (ce n’e’ uno anche vicino alla tettoia di Hatu, i frutti sono buoni, ne ho gia mangiati, ma ero l’unico, li’ a farlo). Scendo al mare e finalmente vedo il molo: una colata di lava che si estende per una trentina di metri in mare, arrivano ondate spaventose, non c’è reef, ed il pendio, sotto la superficie, ha lo stessa pendenza di quello sopra, quindi lungo il molo l’acqua dovrebbe avere 15 o 20 mt di profondita, tutto attorno, sulle rocce, pezzi di assi e di relitti testimoniano che qualche barcaiolo non è stato troppo attento, e che più di una barca si e sfasciata sulle rocce. Fotu sta’ raccogliendo rottami di legno, deve costruire una cassa in cui metterà i maiali da portare via. L’altro planter è andato nuovamente a pescare, in questi 2 o 3 giorni, per lui e festa grande, con 2 facce nuove ed addirittura un palangi con cui parlare e scambiare storie, quindi sciopero e buoni cibi. Pohiva è andato per campi, tornerà con 3 papaie, un sacco di taro ed un grosso kape’. In serata, per cena pesce (arrostito, col limone!), kape’ e taro cotti nell’umu, le papaie sono per me, una stasera, una domani ed una dopo.
Il mattino dopo mi alzo alle 6, uto e banane per colazione, la giornata è buona, Fotu mi ha sbucciato e ripulito 2 noci di cocco da bere, le metto nello zaino, aggiungo circa 1 kg tra kape’ e taro, qualche banana ed una papaia, una bottiglia di plastica con 1,5 lt d’acqua (non mi va di bere acqua che sa di benzina) e parto. La salita e’ ripida, pesante, ma sono in cima poco prima delle 8, al punto di riposo ho recuperato il machete. Non trovo più l’imbocco del sentiero per scendere, però lo vedo più in basso e taglio giù dritto per la montagna fino ritrovarlo, la discesa è dura quanto la salita, forse di più, poi arrivo alle pendici delle due bocche e diventa più facile, salgo per fotografare la bocca che fuma ma l’aria è irrespirabile, le esalazioni sono forti e sono sottovento, per cui rinuncio e ridiscendo, verso le 10 entro nella jungla, devo lavorare di machete, e dopo nemmeno mezz’ora lo zainetto cede: la spalliera destra ha strappato il punto d’attacco e pende miseramente, sarà anche stato studiato per portare pesi (forse), ma sicuramente nessuno ha pensato al tipo di sollecitazioni che potrebbe ricevere, con dentro 5 o 6 kg di peso, da uno che sta’ maneggiando pesantemente un machete, o forse va bene soltanto per essere lanciato da una giunca all’altra mentre gli operatori, pagati dall’Invicta, filmano i voli per lo spot, non si dovrebbe MAI credere alla pubblicita’ in TV, comunque proseguo in qualche modo portandolo a mano, per fortuna il tratto di bosco finisce presto e posso proseguire, portandolo in spalla con una cinghia sola.
Mi fermerò più tardi verso le 11 per mangiare e riposare, continuerò le mie ricerche nel pomeriggio per tornare a Hokula verso le 7 di sera, oltre 2 ore di arrampicata in su ed in giù, quasi senza soste, pressato dal sole che scende, perché farsi sorprendere dal buio significa passare la notte sul monte, all’addiaccio. arrivo giusto in tempo, il sole è già tramontato, ma c’è ancora un po di luce. La ricerca è stata del tutto infruttuosa, non ho trovato nulla, ma cio’ non significa alcunche’: per un’ispezione decente ci vogliono almeno un paio di squadre di 2 uomini, equipaggiate con materiale da campo, ed almeno una settimana di tempo, con qualcuno dall’esterno che li rifornisce giornalmente di viveri ed acqua, riferirò poi nel rapporto. Mi chiedono se ho visto l’idro, dico di no, è arrivato a meta’ mattina, ha iniziato ad abbassarsi per poi riprendere quota, il tutto nella parte sud, poi hanno fatto una virata larga e se ne sono andati, rotta sud, Nuku’alofa quindi. Non si sono nemmeno avvicinati alle due bocche del vulcano, classico obbiettivo dei turisti, quelle sono nella parte nord, ad almeno 3 o 4 km di distanza, mi dicono che, a quanto ne sanno loro, prima di oggi l’idro non ha mai fatto cosi’; nel rapporto riferirò pure questo.
Per la cronaca: in diversi libri ho letto che il cap. Bligh, sbarcato a Tofua in cerca d’acqua dolce, e stato respinto, mentre sbarcavano, da indigeni ostili, ed uno della sua ciurma, in tale scontro e rimasto ucciso, per cui sono ripartiti, senza nemmeno immaginare che a poca distanza c’e il lago, il più grosso deposito d’acqua dolce del Pacifico.
Trovo molto strano che ci fossero indigeni (ostili o meno) sulla spiaggia mentre quelli sbarcavano (sulla scialuppa erano in 15, o in 18, non rammento bene), per respingerli ci voleva una truppa di almeno una ventina di guerrieri, per raggiungere uno qualsiasi dei pochi punti di approdo di Tofua, partendo dai luoghi abitabili, ci vuole perlomeno 1 ora di tempo, che diavolo ci stavano a fare 20 guerrieri armati su quella particolare spiaggia? La cosa, cosi’ come è raccontata, se hai visitato Tofua, non è credibile.
Inoltre, quello che viene descritto come il maggior deposito d’acqua dolce del Pacifico è un lago di acqua tecnicamente dolce (nel senso di non salata), ma assolutamente imbevibile, ha un sapore di zolfo, di ferro e chissaddio che cosa altro talmente forte da far vomitare, forse, non è tossica (ho qualche dubbio in proposito), ma comunque imbevibile, l’ho assaggiata e sputata personalmente.
Le mie gambe sono oramai tutte piagate, i vecchi graffi cominciano a suppurare, con infiammazioni piuttosto estese, le ho lavate ma non credo che servirà a molto, arrivati a questo punto. Comunque sono esausto, mangio qualcosa svogliatamente e vado a dormire.
Il mattino dopo, verso le 7, Fotu ed io ripartiamo per Manaka, ho sulle gambe le scalate di ieri, ed in nottata le piaghe e le ulcerazioni sono peggiorate, il percorso di oggi, comunque, è lo stesso, quindi altri graffi e ferite sopra le piaghe precedenti, è molto doloroso, ma mica posso restare qui. Lo zaino, con una sola cinghia, anche se leggero, da parecchio fastidio. Nella jungla, poco prima di ridiscendere, resto indietro più volte e devo chiamare Fotu per farlo rallentare: nei tratti in cui abbiamo tagliato non c’è problema, ma dove siamo passati senza tagliare potrei perdermi molto facilmente. Raggiungiamo la piantagione di ananas, ne mangio uno, le gambe fanno male, Fotu dice che lui resta li’, deve raccogliere un paio di sacchi di ananas da portare via sabato, proseguirò da solo: la strada, da qui in poi è chiara. Arrivo a casa di Fotu e mi metto dormire, riparto verso le 2 ed alle 4 sono alla tettoia. In serata arrivano in diversi, Fotu racconta qualcosa, da quello che ho capito, prima di partire pensava che non riuscissi a farcela nemmeno a raggiungere il costone, e temeva di dover tornare indietro, magari portandomi di peso, dice che si è ricreduto nella jungla, all’andata, mi sento fiero di me :-). Stasera mi ha portato degli ananas e delle banane mature, un mezzo casco di banane verdi da cuocere per gli altri, Oto e Stivi nel pomeriggio sono andati a pescare e stasera a cena un bel pesciazzo (arrostito!) per me, per loro pesce bollito, lo preferiscono, inoltre stasera niente taro: banane verdi bollite, e Makesini ha portato giù, da casa loro, del sale. L’ananas e le banane gialle come dessert. Oto è andato in giro per il bosco in cerca di erbe e foglie, e Stivi le ha pestate con le pietre, Oto ne ha fatto un impiastro (o cataplasma, o comediavolo si chiama) e, dopo lavate le gambe me l’ha applicato, spero serva almeno a qualcosa, ma dubito molto. Le moshe sono fastidiosissime, sono attirate dalle piaghe infette.
Il mattino dopo le ferite infette suppurano, scendo in qualche modo al mare e mi lavo con l’acqua salata (attorno a Tofua non ci sono reef corallini, quindi non dovrebbe esserci troppo veleno di corallo in sospensione), con il sale, comunque, fa un male cane, e non è come l’Adriatico, qui c’è poco iodio, molto poco. Riposo tutto il giorno, alla sera siamo in 18, hanno preparato un grosso umu, poi ci sara il fai kava d’addio, e in tutta ln serata, sia a cena, che durante il fai kava, nessuno ha pronunciato la parola “palangi”, sempre e comunque “Uatta”, il mio nome, per loro.
Al mattino presto facciamo i bagagli e scendiamo alla spiaggia della barca, Fotu è Stivi sono già arrivati partiremo in 6: Hatu skipper, Fotu, Daniela, Makesini, Stivi ed io, con noi, settimo passeggero, verrà Pohiva, ha detto di avere dei problemi ai denti, vuole andare a Tongatapu, all’ospedale di Vaiola per farseli sistemare, inoltre ha voglia di rivedere moglie e figlia. Dubito molto che ritornerà a Tofua, sono spettatore di un fatto storico, anche se di nessuna importanza: l’ultimo abitante di Tofua che abbandona l’isola. Ora, la Balena sarà una Ghost Island, anche questo finirà nel mio rapporto a Sailosi.
Io mi reggo a malapena in piedi, per cui il lavoro lo fanno tutto loro 5: alano la barca in acqua, poi Fotu parte da solo, va al molo di Hokula a prelevare Pohiva, la cassa con 7 maialini e 5 sacchi di ghiaia (nelle isole coralline non esiste la ghiaia, tutt’alpiù roccia frantumata). Rientra dopo tre quarti d’ora, Pohiva seduto sul sovraponte, caricano la kava: 13 sacchi di Fotu, 10 di Daniela, 7 di Makesini, tutti nel sottoponte, poi i bagagli, sempre li sotto, oramai e’ pieno, sul sovraponte 3 cesti lunghi pieni di radicette di kava, Carichiamo ancora 3 sacchi di sassi grossi come un pugno, sono sassi di pietra vulcanica, vanno molto meglio della roccia corallina per l’umu, e si vendono bene. Poi caricano anche le pietre: per pestare la kava (e le foglie ed erbe medicinali) si usa tradizionalmente una pietra piatta, il più grande possibile, e ci si pesta su con una un po’ più grossa di un pugno, pietre di questo tipo si trovano solo a Tofua e vengono pagate bene, Fotu ne ha 3 serie, Stivi altre 3, io 2 (una per Puluno ed una per me). Le operazioni di carico sono semplici: in 3 tengono ferma la barca, uno porta i sacchi e pacchi vari in spalla, a guado, aspettando il momento buono tra un’onda e l’altra e consegna il carico a quello sulla barca, che lo stiva, in quel modo è un’operazione lunga, comunque alla fine ci imbarchiamo pure noi, Hatu al timone, Pohiva Fotu ed io nel pozzetto, seduti sul bordo coi piedi incastrati in qualche modo tra le taniche della benzina e la cassa dei maiali, gli altri sopra la kava sul sovrapponte.
Partiamo, non indosso la cerata, sapevo che avrei dovuto imbarcarmi a guado con l’acqua al petto, e che il mare sarebbe stato agitato, per cui indossarla è più d’impiccio che altro. Tira vento ed appena in mare aperto cominciamo a ballare, stimo l’altezza delle onde sui 5/6 metri, la barca è sovraccarica ed imbarchiamo parecchia acqua ad ogni onda, spesso la cresta dell’onda supera la falchetta e l’acqua entra a rovesci, Fotu sgotta come un dannato, ma non basta. Hatu dice qualcosa, Fotu approva: le prime a finire in mare sono le pietre grosse, poi i sacchi di sassi per l’umu, ed infine anche quelli della ghiaia, ora imbarchiamo ancora acqua, ma molto meno e sgottando si riesce ad arginare il problema, Fotu sgotterà finche non avremo superato le barriere di reef attorno a Kotu e non saremo in acque calme, quasi 4 ore, di continuo, in una posizione impossibile, ma lo farà perché in quel frangente lui è l’unico che possa farlo. Sono bagnato ed intirizzito, ogni onda mi lava per meta’, poi gli spruzzi lavano l’altra meta’, c’è il sole, ma in quella situazione non scalda, l’acqua non è fredda, ma c’è il vento che te la raggela sulla pelle, batto i denti dal freddo, lo fa anche Hatu. Mi viene da chiudere gli occhi ed appisolarmi, ed ogni volta che lo faccio Fotu mi allunga una gomitata per svegliarmi, ma non capita solo a me, ogni tanto una anche a Pohiva: addormentarsi, in quella situazione, significa volare in mare alla seconda ondata, e ripescare qualcuno, in quelle condizioni, sarebbe difficilissimo, quindi NON SI DORME. Un simile viaggio è il degno rientro da un posto come Tofua. Ci impieghiamo 4 ore e mezza, inoltre arriviamo con la bassa marea e dobbiamo fare un giro lungo per trovare una passe, poi anziché su Kotu punteremo prima su Matuku, ed appena a 200 metri dalla spiaggia di quell’isola imboccheremo il canale che ci porta a Kotu.
Quando arriviamo la marea è troppo bassa per superare il reef ed arrivare alla spiaggia, scegliamo un’altra spiaggia, buttiamo l’ancora e sbarchiamo a guado. Qualcuno tornerà più tardi, con la marea più favorevole, per spostare la barca fino ad un posto ove sia possibile scaricarla. Siamo tutti completamente fradici, gelati ed esausti, risaliamo la spiaggia, Daniela e Fotu sono i più fortunati: Daniela abita nella terza casa, arrivando dalla spiaggia, e Fotu starà da lui. Io cammino male, la posizione assunta in barca mi ha distrutto la schiena, l’acqua salata sulle ferite è stato acido sulla carne viva, peggio ancora sbarcare, l’acqua del reef èpiena di veleno di corallo, comunque risalgo il villaggio ed arrivo alla casa dei Fine.
Fine non c’è, ma Sela e Lesieri sanno cosa devono fare quando rientra qualcuno con quel mare, ai loro uomini apita spesso: nel casotto del bagno c’è il catinone pronto ed un paio di secchi d’acqua che mi aspettano, mi danno una tazza di qualcosa di caldo e molto zuccherato, potrebbe essere qualsiasi cosa, ma è buonissimo, scalda lo stomaco. Ho con me lo zainetto, mi chiedono se ho da cambiarmi e dico di no, dentro c’è solo il sacco a pelo, cosi’ mi danno una maglietta ed un tupenu di Fine (lui è magro, non riuscirei ad entrare nei suoi pantaloni), mi lavo, asciugo e cambio, mi sembra di rivivere, un’altra tazza di quel qualcosa di meravigliosamente caldo e zuccherato e vado a dormire sulla stuoia di Fine. Mi svegliano dopo un’ora, nel frattempo hanno fatto qualcosa da mangiare, sono stravolto e preferirei continuare a dormire, ma dicono che ora debbo mangiare, tornerò a dormire dopo, non so se hanno ragione o no, però non ho energie per discutere, più facile fare come dicono loro. Mi sveglio altre 3 ore dopo, sto’ meglio, non dico nulla a nessuno e vado a vedere se riesco a recuperare i bagagli per infilarmi un paio di mutande asciutte sotto al tupenu. La barca è già li, è già stata scaricata, torno in paese e chiedo a Daniela, mi dice che il mio bagaglio è già da più di un’ora a casa dei Fine, cosi’ torno indietro, Sela e Lesieri hanno aperto la sacca, diviso la roba pulita da quella sporca e stanno facendo il bucato, la roba chiara, già lavata, e già stesa ad asciugare, stanno lavando quella scura. Mi chiedono come va’ dico “bene, ora” e le ringrazio per quanto stanno facendo, Sela dice che ha gia visto molte volte, sia il marito che il figlio tornare a casa dopo una traversata difficile, dice che tutte le donne, li’ sanno cosa devono fare, mi limito a rispondere “io”, lo sanno veramente. Recupero qualche capo di biancheria da indossare.
Dopo un po’ rientra Fine, era andato a pescare per stasera e domani, più tardi mangerò qualcosa, stasera niente kava, devo dormire. L’indomani vado alla funzione religiosa nella chiesa dei Wesleyani: è la più vicina, basta attraversare la strada, forse 10 mt in tutto, e poi li’ non ci si siede per terra, li sono ricchi, hanno delle panche. Dopo la chiesa arriva l’esperto di erbe e foglie (loro lo chiamano il dottore tongano), guarda lo stato pietoso delle mie gambe, dice che se voglio, lui può provare qualcosa, ma la vede bruttina, consiglia solo un drenaggio ed una ripulita, eventualmente da ripetere domani, poi domani notte sarò ad Ha’afeva, li’ c’è un medico, e se decido di non fermarmi ma di andare dritto a Pangai, anziché a casa mi consiglia l’ospedale. Accetto il consiglio e lo lascio lavorare, mi fa un male bestia, ma suppongo sia necessario, chiedo a Fine se per caso ha ancora quella famosa teiera, ridendo dice che gli dispiace ma che è finita, però me la farà trovare piena per Natale. Per evitare le mosche faccio una leggera fasciatura, ma èun errore: le bende si attaccano, ma questo lo scoprirò solo domani, sul momento va bene, c’è un certo sollievo. dopo cena andiamo a casa di Tisileli a bere kava, mi chiedono come è andata, ma non ho molta voglia di parlare, cosi’ taglio via abbastanza corto, nessuno obbietta, alle 11 me ne vado a dormire, la kava ha un leggero effetto anestetico sulle ferite.
Spendo la mattinata successiva a zonzo per il paese, tutti mi chiedono di Tofua ed io rispondo “e’ la’”, ed indico la direzione: ridono. Passo un momento difficile, nel pomeriggio, nel togliere le bende ma e’ un problema che si supera, poi devo solo usare continuamente un ventaglio per tenere lontane le mosche dalle piaghe. Intanto sono rientrato nei miei pantaloni, ieri ho usato il mio tupenu. In giro ci sono due ragazzi mormoni, sono tongani, forse di Tongatapu, stanno facendo qui i loro due anni di apostolato: principalmente esaminano e disinfestano i capelli dei ragazzini della GPS, ma svolgono anche parecchi altri servizi sociali, ora ad esempio stanno tagliando i capelli ad un paio di ragazzi, cosi’ mi metto in fila pure io, la pelata è lucida, ma ho parecchia lana sulla nuca, meglio tagliare.
Alla sera preparo i bagagli e mi avvio alla spiaggia, mi accompagnano tutti i Fine, Tisileli e sua sorella, la mia “fidanzata” (c’ho parlato ieri ed oggi, giusto per conoscerla un po’, non sembra affatto male) e suo zio. A cena ho mangiato solo un boccone, meglio stare leggeri prima di navigare. Mi imbarco alle 7.30, è già buio, per evitare che mi bagni le gambe hanno arenato la barca di poppa e mi bagno solo i piedi, poi spingono la barca in mare, sulla barca, oltre a me, ci sono i due barcaioli e 3 ragazzi, uno si fermerà ad Ha’afeva, e gli altri due cercheranno un passaggio per nonsoquale isola, tra le barche che portano e ritirano gente e merci all’appuntamento settimanale con la Tau Tahi. Il mare è tranquillo, poco più di un’ora di traversata e siamo ad Ha’afeva, buttiamo l’ancora e deriviamo con la poppa arenata sulla spiaggia (la marea sta’ ancora salendo, si libererà da sola). Dico che vado a cercare sigarette, sbarco e risalgo la spiaggia ed il paese, arrivo al negozio di Auka, lo saluto, l’ho conosciuto in agosto e si ricorda di me, chiedo un pacchetto di sigarette ma le ha finite, però mi offre un paio delle sue, li’ attorno, sotto la veranda, solo un paio di perditempo, noi cominciamo a parlare, ma questa è un’altra isola, un’altra storia.
Nota dell’autore:
Quanto sopra narrato è l’esperienza personale del mio viaggio a Tofua (Ha’apai Group, Kingdom of Tonga). I fatti descritti non sono immaginari, ma sono come effettivamente io li ho vissuti, nel periodo dal 20 al 29 novembre 1997. I nomi delle persone citate sono reali, anche se in qualche caso i nomi sono stati volutamente omessi.
Walter Mascarin
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